All'Arcobaleno Fest dell'Associazione ARTAVA la parola dell'Abate Antonio circa le pari opportunità confessionali in Italia
- Christiana Fraternitas
- 21 set 2024
- Tempo di lettura: 8 min
L'intervento dell'Abate Perrella per Arcobaleno Fest verte su considerazioni del contesto culturale-religioso e sull'impianto normativo vigente per il riconoscimento giuridico degli enti di culto non cattolici in Italia. "La sfida del mondo globalizzato e flussi migratori ci mettono davanti alle diversità cultuali che sono lo specchio delle diversità antropologiche; l'Italia è pronta ad accoglierle?" Alcune parole estratte dal discorso di dom Antonio.

Sabato 21 settembre alle ore 10, presso la sede di ARTAVA Associazione in via Duomo nella splendida Città Vecchia di Taranto, all'interno delle iniziative dell'Arcobaleno Fest, l'Abate Antonio è stato invitato dal Presidente Armando Blasi a tenere un incontro sulla questione delle pari opportunità delle confessioni religiose non cattoliche in Italia. Qui sotto il testo integrale dell'intervento.
Testo integrale dell'intervento del Rev. mo dom Antonio Perrella
L'italia e le Confessioni religiose non cattoliche
Vorrei anzitutto ringraziare gli organizzatori di questo incontro, ad Armando Blasi ed ai suoi collaboratori, per avermi invitato a condividere con coi alcune riflessioni sotto i colori di questo arcobaleno fest e per avermi permesso di trattare un tema così stimolante e, a mio parere, urgente ed attuale nell’ambito delle pari opportunità.
Gli imponenti flussi migratori, a cui stiamo assistendo, e la evoluzione del mondo cosiddetto globale ci impongono, infatti, una seria riflessione sulla capacità del nostro “sistema Italia” di essere pronto a veri processi di integrazione, di multiculturalità e di diversità culturale e religiosa. Bastano questi due cenni al contesto per comprendere quanto il tema della libertà di culto e della parità, dinanzi allo Stato e alla società, dei differenti credo religiosi sia un argomento urgente e decisivo.
Ad un primo sguardo potrebbe sembrare che il tema da trattare sia strano e per certi versi in questa società che sembra cedere all’idea – consentitemi, idota – della irrlevanza di Dio questo possa essere del tutto relativo rispetto ad altre battaglie da intraprendere in termini di conquiste circa le pari opportunità.
Inoltriamoci allora nella nostra riflessione. Trattare questo argomento richiede di tenere assieme uno sguardo all’apparato normativo in ordine alle libertà religiose, da un lato; e, dall’altro lato, alla questione culturale e sociale. In realtà, questo è l’unico vero approccio possibile perché norma e cultura sono due risvolti di un’unica medaglia. Uno Stato di diritto fonda se stesso anzitutto su una cultura, cioè su una specifica comprensione del mondo e della realtà. Le norme, che esso promulga, sono il frutto di questa cultura. Per far un esempio: quando la cultura diffusa era maschilista e patriarcale, nessuno si poneva domande sui diritti delle donne. Fu il movimento femminista a ingenerare un virtuoso progresso culturale che portò al riconoscimento, per esempio, del diritto di voto alle donne. Quando la cultura italiana era dettata dalla visione religiosa cattolica, nessuno si poneva domande sui diritti delle persone e delle coppie omosessuali. Sono stati i movimenti LGBTQ+ ad aver prodotto uno sviluppo culturale che ci ha portati a porci delle serie domande su queste persone e sulla dignità della loro vita, che va normativamente garantita. È la cultura di un popolo che genera i processi legislativi e sono le norme a radicare i progressi culturali ed a normalizzarli nel tessuto sociale e nella convivenza civile.
Alla luce di queste considerazioni preliminari possiamo porci una domanda iniziale: qual è attualmente il quadro normativo attraverso il quale lo Stato e la società italiane garantiscono la reale e concreta libertà di culto e la parità fra le diverse confessioni religiose?
Il punto di partenza non può che essere la Carta Costituzionale.
Gli articoli più rilevanti in questo ambito sono:
• Art. 3: Riconosce l'uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione e stabilisce il principio di non discriminazione.
• Art. 8: Stabilisce che tutte le confessioni religiose sono libere di fronte alla legge. L'articolo prevede che le confessioni religiose diverse da quella cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, a condizione che non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.
• Art. 19: Riconosce a tutti la libertà di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o collettiva, di farne propaganda e di esercitarne il culto.
• Art. 20: Vieta discriminazioni contro le associazioni o istituzioni a carattere religioso in base alla loro natura o ai loro fini.
Questi appena elencati sono i principi costituzionali che reggono la questione della libertà religiosa. Tuttavia, occorre subito dire che i principi costituzionali devono, poi, discendere in leggi quadro che regolamentino concretamente i diritti ed i doveri sia dei cittadini, sia delle agglomerazioni religiose, sia dello Stato verso di essi. Attualmente – a distanza di circa 70 anni dalla stesura e promulgazione della Costituzione – questa legge quadro su una materia così importante manca.
Un gruppo religioso per vedere riconosciuto il suo status di confessione religiosa deve accedere agli strumenti della legislazione ordinaria. Ed è qui che iniziano i problemi. Infatti, le uniche fonti normative di riferimento sono la Legge n. 1159 del 1929 ed il Regio Decreto n. 289 del 1930. A nessuno sfugge che si tratta di testi normativi pre-costituzionali e di epoca fascista che impongono limiti e controlli alla libera attività di culto e religione diverse da quella cattolica. Molte realtà religiose attualmente in Italia possono costituirsi solo come “associazioni” e non “enti di culto”. Sebbene la quasi totalità dei giuristi affermi chiaramente che quelle due fonti normative sono anacronistiche, insufficienti e, per qualcuno, persino anti-costituzionali il legislatore ancora non decide di porre rimedio a questo vulnus ed a questa vacatio legis.
Vorrei fare un esempio concreto. Immaginate che dei liberi cittadini italiani decidano di convergere su una qualsiasi forma di fede religiosa che non sia in contrasto con la Costituzione e con le leggi. Per essere riconosciuta come confessione religiosa ed accedere ai pieni diritti che le spettano, così come la Costituzione indica, deve dimostrare di avere almeno 5000 aderenti sul territorio nazionale. Il pastore o ministro di culto, quindi, non può celebrare nozze civilmente valide dei suoi fedeli, agli aderenti a quella fede viene negato il diritto costituzionalmente sancito ovvero il riconoscimento del culto proprio. In base a questo ragionamento, la libertà religiosa – concretamente attuata – non è diritto del cittadino e della persona, ma del numero di fedeli. La logica che soggiace alle leggi del 1929 non è il riconoscimento di un inalienabile diritto ma quello della concessione amministrativa da parte dello Stato. E questo è in evidente contrasto con il dettame costituzionale. Lo Stato non può concedere lo status di fede religiosa, ma solo riconoscere quello status la cui origine giuridica risiede nella libertà religiosa degli individui. È evidente che qui ci troviamo dinanzi a due modelli culturali contrastanti: quello statalista di matrice fascista e quello personalista di matrice costituzionale. Il dettato costituzionale, in assenza di una norma corrispondente alla cultura contemporanea, troverà allora sempre impedimento nella sua piena e legittima attuazione.
Qualcuno potrebbe obiettare che lo Stato deve dare dei criteri di valutazione, perché un fatto per essere rilevante, in termini di vita pubblica, necessita anche di numeri. Se questa argomentazione può essere vera in generale, sulla questione specifica non lo è. Infatti il costituzionalista Vittorio Emanuele Orlando ha chiarito che “la libertà di culto rappresenta una delle manifestazioni più alte della libertà individuale”. L’obbligo dello Stato di garantire la fattività di questa libertà non risiede quindi nei numeri, ma nella persona singolarmente presa e nella sua capacità di autodeterminarsi anche religiosamente.
Verrebbe da chiedersi, ma solo per accademia giuridica: una parrocchia cattolico-romana di 2000 abitanti riceve la personalità giuridica per il semplice fatto di essere stata eretta canonicamente dal vescovo. Ora, tutti noi sappiamo realisticamente che gli abitanti di un territorio, anche se si definiscono cattolici, in realtà non lo sono per la pratica religiosa. Inoltre, fra di essi -fra questi 2000 abitanti - vi sono anche appartenenti ad altre confessioni cristiane, altre confessioni religiose e atei. Eppure anche questi cittadini, che non si riconoscono nella Chiesa cattolico-romana, vengono contati nel numero degli abitanti di quello specifico ente di culto, semplicemente perché risiedono in quel territorio. Per di più, i cattolici praticanti oggi sono il 12%-15%. Questo vuol dire che quella ipotetica parrocchia di 2000 abitanti, in realtà sarà composta solo da 300 persone. Che sono molto meno delle richieste 5000 persone, eppure quella parrocchia, quell’ente di culto appena eretto, solo perché cattolico-romano, riceve ipso facto la personalità giuridica. Questa prassi evidentemente crea una diversità tra la confessione religiosa cattolico-romana e le altre ed è quindi in contrasto con la uguaglianza e non discriminazione sancita dalla Costituzione.
Un altro esempio: una realtà religiosa, per vedersi riconoscere la sua natura di ente di culto e religione, deve dimostrare di avere un patrimonio tale da essere adeguato al perseguimento dei suoi fini. Questo patrimonio iniziale viene quantificato, come per le associazioni che richiedono la personalità giuridica, in euro 50.000,00. Quale realtà, che non può accedere a benefici fiscali – come per esempio l’esenzione dell’IMU o il 5x1000 – potrà mai avere un patrimonio iniziale di quella portata?
Voi, che siete tutti persone intelligente, ben comprendete che qui ci troviamo dinanzi ad un principio scritto sulla carta, ma ostacolato nella sua pratica attuazione. Sempre per tornare all’esempio di quella ipotetica parrocchia di 2000 abitanti, sarebbe interessante sapere se le Prefetture di Italia, prima di iscrivere le parrocchie nel registro delle persone giuridiche, chiedono l’estratto conto da cui si evinca una iniziale dotazione economica di 50.000,00 euro…
Sulla questione più generale delle pari opportunità, poi, vorrei compiere un’ulteriore riflessione che ci fa comprendere come, nel nostro contesto culturale, spesso le questioni di principio vengano equivocate. Faccio riferimento alle cosiddette quote rosa nelle elezioni. Ognuno di noi, nelle scorse elezioni, si è trovato dinanzi al dovere di votare coppie di candidati – un uomo e una donna – pena la invalidità della scheda. Il principio è sacrosanto: la parità di genere e dei diritti. Tuttavia, da un punto di vista giuridico, è fondato il dovere delle formazioni politiche a dare uguale spazio a uomini e donne, ma non può esserci un dovere del cittadino ad un voto condizionato da questioni di identità sessuale. Un partito deve candidare pari uomini e donne, ma il cittadino deve essere libero di votare, se vuole, due uomini o due donne o una donna ed un uomo. Ancora una volta quello che sarebbe dovere dello Stato e delle sue formazioni viene catapultato come dovere del cittadino. Ciò che sembra ancora mancare nella cultura italiana, che sta alla base delle nostre leggi, è il bilanciamento tra i doveri dei cittadini verso lo Stato e gli altrettanti doveri dello Stato verso i cittadini. Ogni contribuente ne fa amara esperienza: se lo Stato ha un debito verso di te, puoi anche morire di fame; ma se sei tu ad avere un debito verso lo Stato, allora devi pagarlo subito se non vuoi morire di fame.
In uno Stato di diritto, cioè, i cittadini sono pienamente tali se essi hanno doveri verso lo Stato, ma anche diritti e se lo Stato riconosce i suoi doveri verso i cittadini, e non solo sulla carta ma anche nella concretezza della vita sociale e delle norme attuative dei principi a cui esso dice di ispirarsi.
In conclusione, vorrei dire che la questione del pluralismo religioso e della libertà religiosa potrebbero essere il campo, il laboratorio nel quale finalmente la cultura giuridica italiana possa confrontarsi su un rapporto più equilibrato tra cittadini e formazioni sociali da un lato e lo Stato dall’altro. In caso contrario, sarà davvero difficile che l’Italia esca da una sottocultura feudale e antiquata che le impedisce di essere un Pese pronto ad affrontare la sfida della inclusione sociale e delle pari opportunità.
Grazie a tutti per il paziente ascolto.
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