top of page

VII Anniversario di Ministero Abbaziale di dom Antonio Perrella

  • Christiana Fraternitas
  • 12 ott
  • Tempo di lettura: 8 min

"Fratelli e sorelle, non celebriamo oggi una tappa di carriera, ma un miracolo di misericordia! Non un Abate che si vanta, ma un lebbroso guarito che dice grazie. E questo voglio che rimanga scritto nel cuore di tutti noi: noi siamo coloro che hanno gridato da lontano, e che hanno ricevuto uno sguardo di misericordia. Ora siamo invitati a non dimenticare di tornare, di ringraziare, di vivere ogni giorno come rendimento di grazie.". Queste, alcune parole tratte dalla chiosa dell'omelia dall'Abate Antonio per il suo VII anniversario di Ministero Abbaziale.


Sabato 11 ottobre 2025 alle ore 19.30, presso la Cappella "Santi Benedetto e Scolastica" della Christiana Fraternitas una moltitudine di persone si è stretta attorno al suo pastore, dom Antonio Perrella, nella Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per ringraziare il Signore del Ministero Abbaziale conferitogli sette anni or sono dal suo Ordinario Mons. Pierre Whalon.

Anche quest'anno non sono mancate la presenza dell'Amministrazione Comunale di Taranto. Inviato dal Sindaco Piero Bitetti è stato il Vicesindaco Mattia Giorno, il quale ha indirizzato all'Abate parole augurali. Con lui presente l'Assessore Francesco Cosa e i Consiglieri Comunali Antonio Quazzico e Mimmo Festinante. Anche le Associazioni con cui la Christiana Fraternitas intrattiene rapporti e collaborazioni sono state presenti con i propri Presidenti e rappresentanti.

Il ministero liturgico del canto e della musica è stato svolto dall'orchestra "Tebaide d'Italia", diretta dalla M° Cosimo Maraglino, che ha eseguito brani della scuola romana, in particolare di V. Miserachs.

I fiori che hanno adornato i poli celebrativi sono stati offerti gratuitamente dal fiorista Angelo Potenza al quale va tutta la nostra gratitudine.

ree


Testo integrale dell'omelia tenuta da dom Antonio Perrella


Le letture proclamate sono state quelle

della VXIII domenica del Tempo Ordinario - Anno C:

2Re 5,14-17; Sal 97(98); 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

ree

Cari Fratelli e sorelle, carissimi amici ed amiche,

nel giorno in cui ricordiamo il settimo anniversario della mia benedizione abbaziale, mi è dato di sostare con voi davanti alla Parola di Dio. È un anniversario che non voglio celebrare come se fosse un bilancio, né come se fosse un punto d’arrivo. È piuttosto un’occasione per lasciarmi ancora una volta giudicare, istruire, illuminare, consolare e sconvolgere da questa Parola di vita.

Miei cari, non sono io che parlo della Parola; è la Parola che parla di me, che parla di noi, e pone ciascuno al proprio posto.

Ed oggi, alla luce di quanto abbiamo ascoltato nelle letture, sento che il posto che mi viene indicato non è quello del profeta, né del sacerdote, né del maestro. Oggi, non mi è concesso di identificarmi con le figure comode, con coloro che stanno al centro della scena. La Parola mi colloca piuttosto tra i lebbrosi, tra i guariti, tra quelli che non hanno nulla da vantare se non la misericordia ricevuta.

Nella prima lettura abbiamo conosciuto Naamàn: l’uomo potente, generale e condottiero, di cui parla il secondo libro dei Re; in ebraico lo si chiama śar ṣebāʾ, “capo dell’esercito”: tutto diceva forza, comando, autorevolezza. Ma sul suo corpo portava la ṣāraʿat, la lebbra, che non era solo una malattia, ma una ferita sociale, un marchio di esclusione. Si poteva essere grandi davanti agli uomini e nello stesso tempo vivere nell’umiliazione e nella vergogna. È una verità che non riguarda solo Naamàn: anche noi, spesso, siamo una combinazione di forza e di fragilità, di apparenza e di ferite nascoste.

Abbiamo ascoltato che Naamàn si immerge nel Giordano sette volte. Non è un gesto magico. È obbedienza alla Parola del profeta. Il testo ebraico dice che la sua carne ridivenne “come quella di un ragazzo”, kivśar qaṭān. È il linguaggio della rinascita: non soltanto guarigione del corpo, ma un nuovo inizio, una nuova possibilità. E da questa esperienza nasce una confessione di fede, il lebbroso condottiero dice: «Ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele». Poi Naamàn si porta dietro la terra santa, per non dimenticare. Vuole che la sua vita sia radicata nella salvezza ricevuta.

Io, questa sera, mi riconosco nel lebbroso: anch’io porto nel cuore segni di fragilità che mi umiliano, eppure so che la mia vita è stata visitata da Dio. E come Naamàn voglio portare con me un “pezzo di terra”, cioè i segni concreti della fedeltà del Signore, perché non mi dimentichi che tutto è dono. Così io mi porto sempre dietro la terra della benedizione abbaziale che ho ricevuto: il Signore mi ha tratto in salvo e mi ha attirato a sé. Ed è in questa attrazione che trovo il senso della mia esistenza.


Nella seconda lettura anche Paolo, scrivendo a Timoteo, parla da prigioniero. Dice di portare le catene come un malfattore, kakourgós. Non scrive da vincitore, non da uomo di successo, ma da sconfitto secondo i criteri del mondo. Eppure afferma: «La Parola di Dio non è incatenata». Io porto i miei limiti, le mie catene, le fatiche di questi anni, ma la Parola non è incatenata! Se qualcosa di buono è accaduto, non viene dalle mie forze, ma dalla fedeltà di Dio. «Se siamo infedeli, Lui rimane fedele»: pistòs gar ménèi, con tutta la stabilità e la durevolezza del verbo greco. Questa fedeltà di Dio è la roccia che sostiene il ministero abbaziale, e la vita di ogni comunità.


E infine il Vangelo. Abbiamo ascoltato che Gesù è in cammino verso Gerusalemme. L’Evangelista Luca ci ricorda che tutto ciò che accade lungo la strada è orientato alla Pasqua, alla vita! Dieci lebbrosi gli vengono incontro. Non possono avvicinarsi, perché la Legge li obbliga a rimanere a distanza. Gridano: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Non domandano una guarigione tecnica, ma misericordia: eleēson hēmas. Chiedono uno sguardo che li reintegri, una mano che li restituisca alla vita comune.

Gesù – in questo caso – non li tocca, non fa gesti straordinari: li manda dai sacerdoti. Mentre vanno, accade la purificazione. Il verbo greco è katharízō: non solo guarire, ma purificare, restituire a una vita sociale e liturgica. Eppure, di dieci guariti, uno solo ritorna dal Signore Gesù. Era un allogenḗs, uno straniero, un samaritano. È lui che si getta ai piedi di Gesù e lo ringrazia. È lui che ascolta la parola decisiva: «La tua fede ti ha salvato». Non solo guarito, ma sōzō, salvato. Solo un lebbroso – e per giunta samaritano – ascolta la Parola definitiva della salvezza perché lui solo – straniero e reietto – aveva riconosciuto il suo bisogno di essere salvato.

Anch’io questa sera mi riconosco in quel samaritano. Non ho diritto a stare qui se non come straniero, come uno che ha ricevuto tutto per grazia. Non posso celebrare questo anniversario come se fosse il trionfo delle mie capacità, ma come il ritorno di un lebbroso guarito che si prostra ai piedi di Gesù per dire grazie. Il Vangelo usa il verbo eucharisteín, da cui nasce la parola eucaristia. È proprio questo il cuore della vita monastica: ogni giorno ritornare a Lui, prostrarsi, offrirsi e ringraziare.


E oggi, nell’anniversario della mia consacrazione abbaziale, la parola che sento più vera è proprio questa: grazie! Grazie al Signore che ha guardato le mie ferite e non mi ha scartato anzi mi ha dato fiducia e chiamato al ministero in mezzo a voi. Grazie alla comunità che con pazienza ha portato le mie fragilità ed ha saputo, attraverso di queste, guardare all’Opera di Dio in suo favore. Grazie perché, come Naamàn, anch’io sono stato rigenerato. Grazie perché, come Paolo, anch’io posso dire che la Parola non è incatenata. Grazie perché, come il samaritano, anch’io ho ricevuto la salvezza.

Ma questo ringraziamento non è solo mio. È nostro. È della comunità che oggi celebra, insieme al suo abate, non un traguardo, ma una grazia! È la voce di una comunità di guariti, non di perfetti. È la lode di uomini e donne che sanno di essere stati reintegrati, restituiti, accolti. E che, proprio per questo, vivono nell’umiltà e nella gratitudine.

La nostra vocazione ecumenica trova qui il suo senso più profondo. Il Vangelo ci ricorda che la fede autentica può nascere anche fuori dai confini visibili, che lo straniero può essere maestro di gratitudine. Anche noi siamo chiamati a riconoscere i segni di Dio nell’altro, nel diverso, in chi non ci appartiene. Il monastero diventa così luogo in cui le differenze non sono cancellate, ma accolte come possibilità di salvezza.

San Benedetto, nella Regola, chiede all’abate di essere padre, ma soprattutto di imitare la tenerezza del Buon Pastore. E dice che il monastero è “una scuola di servizio del Signore”. Non di perfezione, ma di servizio. Non di uomini impeccabili, ma di uomini guariti. Questo anniversario mi ricorda che il mio compito è quello di custodire un popolo di guariti, e di farlo con umiltà, ricordando che anch’io sono stato guarito.

E allora oggi, con voi, voglio tornare a Gesù. Voglio prostrarmi e ringraziarlo come il lebbroso guarito sulla strada verso Gerusalemme. Voglio dirgli che senza di Lui nulla ha senso, e che solo Lui ci salva! Voglio dire con il samaritano: «Gloria a Dio!». E voglio che la mia vita, e la vita di questa comunità, sia una continua eucaristia: un continuo ringraziamento che si rinnova ogni giorno, nella preghiera, nel lavoro, nell’accoglienza reciproca.


Fratelli e sorelle, non celebriamo oggi una tappa di carriera, ma un miracolo di misericordia! Non un abate che si vanta, ma un lebbroso guarito che dice grazie. E questo voglio che rimanga scritto nel cuore di tutti noi: noi siamo coloro che hanno gridato da lontano, e che hanno ricevuto uno sguardo di misericordia. Ora siamo invitati a non dimenticare di tornare, di ringraziare, di vivere ogni giorno come rendimento di grazie.

Che il Signore ci conceda di non smettere mai di tornare a Lui, di non smettere mai di ringraziare. E che la nostra comunità, nella sua debolezza e nella sua apertura, sia segno della fedeltà di Dio, che non può rinnegare sé stesso. Amen.



Gli auguri da parte di tutta la Famiglia della Christiana Fraternitas

rivolti dal Cerimoniere fr. Francesco Bechis


ree

Reverendissimo Abate, caro dom Tonino, Abba, è passato un altro anno dalla tua Consacrazione e, come già dissi due anni fa, un'altra pietra è stata poggiata nella costruzione del tempio. Oggi per la prima volta portiamo in casa questa festa e non vedo momento migliore. Passare da una tenda ad una cappella solida che giorno dopo giorno continua a formarsi e diventare sempre più bella.


Che questa giornata speciale sia un momento che ci inviti a guardare indietro con gratitudine per tutto ciò che hai fatto con passione, impegno e dedizione. Ma è anche l’occasione per guardare avanti con fiducia, sapendo che il cammino prosegue e che ci aspettano ancora tante sfide

ree

insieme.


A nome dei miei fratelli e delle mie sorelle e di tutta l'assemblea, Le auguriamo di cuore un futuro sereno e luminoso, pieno di gioia e soddisfazioni. Che il Signore continui a donarti forza, entusiasmo e quella pace interiore che nasce solamente da una fede profonda e da un servizio generoso.


Il Tuo esempio e la Tua presenza sono un dono prezioso per tutti noi. Ti ringraziamo per come ci accompagni, ci sostieni e ci illumini come la luce del giorno.


Vorrei terminare citando alcune delle parole che Paolo rivolge agli Efesini.

"Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell'armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo." (Efesini 6,10-11)


Anticipazione di alcuni scatti...




La pagellina ricordo con la preghiera composta da dom Tonino

ree



SEMEL ABBAS, SEMPER ABBAS!!!

Christus vincit!

Christus regnat!

Christus, Christus imperat!

Antonio, Reverendissimo Abbati

et universo caenobio ac populo ei commisso

Pax, vita, et salus perpetua.

Tempora bona veniant,

Pax Christi veniat,

Regnum Christi veniat!






 
 
 

Commenti


  • YouTube
  • White Facebook Icon
bottom of page