Celebrazione "in Coena Domini" alla Christiana Fraternitas
- Christiana Fraternitas
- 6 apr 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 29 mar 2024
"Dalla koinonia eucaristica nasce la koinonia fraterna; e la koinonia fraterna è la prova della sincerità della koinonia eucaristica.". Sono alcune parole dell'omelia l'Abate dom Tonino per la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola in Coena Domini.
Anche alla Christiana Fraternitas, presso la Cappella "Santi benedetto e Scolastica" di Abbey House, giovedì 6 aprile 2023 si è dato inizio al triduo pasquale con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola, la commemorazione della Cena del Signore e la lavanda dei piedi moderata dal nostro Abate dom Antonio Perrella.

Qui sotto il testo integrale dell'omelia del nostro
Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Testi di riferimento Es 12,1-8.11-14; 1Cor 11,23-26; Gv 13, 1-20
Carissime Sorelle, Carissimi Fratelli, Cari Amici ed Amiche,
con la celebrazione di questa sera entriamo nel vestibolo del triduo di passione, morte e risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo qui e lo seguiamo, fino in fondo, nel suo cammino di amore sino alle estreme conseguenze. Così ci ha, infatti, indicato la Parola ascoltata: avendo amato i suoi, li amò sino alla fine.
Questa sera, entriamo nel dono e nel dinamismo di questo amore e lo facciamo, come abbiamo fatto per la Celebrazione in Palmis, cercando di attingere dalla grazia della celebrazione e della Parola ascoltata le indicazioni sulla forma e sulla vita della Chiesa secondo il progetto del Signore Gesù che nasce dal Mistero pasquale.
Nella prima lettura abbiamo ascoltato le indicazioni che il Signore dà a Mosè per la notte della liberazione dal paese d’Egitto e per la immolazione degli agnelli. È evidente che si tratta di un testo scritto post eventum. Il tenore delle parole, infatti, manifesta che quando quel testo è stato scritto il popolo di Israele si trovava già stanziato nella terra promessa. La particolare minuziosità della descrizione rituale ci fa anche pensare ad un autore della corrente sacerdotale, impegnato a motivare storicamente e teologicamente il significato dei riti che ormai tradizionalmente si compivano nella festa di Pasqua ebraica. Ciò non di meno, quel testo è particolarmente illuminante per desumerne la comprensione teologica e spirituale che il popolo dell’alleanza attribuiva alla festa pasquale. Se, infatti, da un lato, quel testo narra le modalità con cui gli israeliti si prepararono alla loro liberazione, dall’altro lato, esso tradisce una prassi rituale già consolidata che il testo stesso definisce come un rito perenne.
Si tratta di un evento, di un rito o segno celebrativo, che stabilisce un inizio. A partire da esso, infatti, il popolo dovrà iniziare un nuovo modo di computare il tempo, lo abbiamo ascoltato: questo sarà per voi l’inizio dei mesi, il primo mese dell’anno. L’ordine viene dato a tutta la comunità di Israele e dovrà essere compiuto da tutta l’assemblea della comunità di Israele. Le famiglie più piccole dovranno unirsi ad altre famiglie.
Queste dettagliate indicazioni ci fanno comprendere che la Pasqua, celebrata dal popolo di Israele, non è solo il passaggio dalla schiavitù alla liberazione, ma è anche l’atto costitutivo del popolo in quanto tale. Il ripetuto riferimento alla comunità e alla assemblea della comunità sta ad indicare esattamente questo: dall’evento liberatorio della Pasqua, quell’agglomerato di persone schiavizzate che esce dall’Egitto, viene costituito come popolo. Infatti, nel lungo cammino attraverso il deserto dovrà apprendere come essere popolo e Dio darà loro le dieci parole, come legge costituiva dell’essere popolo. Inizia una nuova storia, inizia una nuova identità storica per Israele. È allora la Pasqua che costituisce Israele come comunità!
La seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai corinzi, si pone sulla stessa linea. La lettura liturgica di quel testo si concentra sul cosiddetto racconto della istituzione. Riporta, cioè, solo il brano in cui l’apostolo narra i gesti e le parole che Gesù aveva compiuto e proferito nella cosiddetta ultima cena e che erano entrati nella trasmissione della fede cristiana. Ciò che il testo liturgico, purtroppo, non fa è inserire quel racconto nel suo contesto. Allora proviamo in poche parole a ricostruirlo: Paolo sta rimproverando la comunità di Corinto per le sue divisioni interne, soprattutto in ordine alla celebrazione della cena del Signore. Come è noto, la sinassi eucaristica avveniva nel contesto di una cena fraterna (agape). In quella comunità, però, accadeva che i più ricchi si radunavano prima (dovendo lavorare di meno) e consumavano il pasto senza attendere gli altri, i più poveri, che dovendo lavorare di più arrivavano più tardi. Così – come dice il testo – accadeva che, quando la comunità era finalmente tutta radunata, alcuni fossero già sazi e persino ubriachi e altri, invece, avessero fame perché non avevano potuto portare nulla. Nella Comunità di Corinto mancava la condivisione del pane, dei beni terreni. Paolo, allora, ricorda loro il senso fondamentale di quell’assemblea: noi ci raduniamo per condividere il pane dell’eucaristia, quindi non possiamo non condividere anche il pane quotidiano. Se i più ricchi non sanno aspettare i più poveri e se non sanno condividere il pane quotidiano, allora che senso ha condividere il pane della cena del Signore? Il fratello che non riconosce che l’altro è insieme a lui corpo di Cristo, non può mangiare quella Cena. Se lo fa, la mangia indegnamente. La famosa frase – chi mangia indegnamente il corpo di Cristo, cioè mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la sua condanna – non si riferisce all’eucaristia né alla vita morale, bensì al riconoscimento del fratello. Cari fratelli e seorelle dalla koinonia eucaristica nasce la koinonia fraterna; e la koinonia fraterna è la prova della sincerità della koinonia eucaristica.
Una comunità, che condivide la cena del Signore, ma non sa condividere tutta la vita è un agglomerato di persone che finge di essere comunità. La condivisione arriva anche alla condivisione dei beni, come dice il libro degli Atti degli Apostoli: tutti i credenti stavano insieme e avevano in comune ogni cosa (2,44); la moltitudine di coloro che erano diventati credenti avevano un cuor solo ed un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune (4,32). Dalla spiritualità della koinonia nasce una ecclesiologia di koinonia e da una ecclesiologia di koinonia nasce una economia di koinonia.
Giungiamo, finalmente, al meraviglioso racconto evangelico, che tuttavia è spesso letto o in chiave dogmatica, nella sua relazione al giorno del giovedì santo, o in chiave poetica, nella relazione al fatto della lavanda dei piedi. Chi legge il testo in chiave dogmatica si sofferma che, in questo giorno, Gesù darebbe alla Chiesa tre doni: l’eucaristia, il ministero ed il comandamento del servizio. Chi lo legge, soffermandosi sul gesto, sottolinea la bellezza del fatto che il maestro si inchini a lavare i piedi dei suoi discepoli. In realtà, le due letture sono parziali, se non addirittura strumentali.
Anzitutto l’evangelista premette al gesto un’affermazione della consapevolezza messianica di Gesù: sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava. È alla luce di questa affermazione che si deve leggere ed interpretare il resto del racconto. Il segno della lavanda dei piedi deve essere, così, un segno rivelativo di Gesù, della sua identità, della sua missione e, di conseguenza, della identità e della missione della Chiesa. Senza entrare in dettagli noiosi, possiamo dire che due sono le interpretazioni maggiormente accreditate (cf Brown, 666-670): una comprensione morale che fa di quel gesto un insegnamento morale ed una comprensione sacramentale che lo lega all’acqua battesimale. In un caso o nell’altro, rimane il fatto che Gesù dice chiaramente a Pietro che senza quel gesto (cioè senza la comprensione del suo significato) non si potrà avere parte con lui. Al centro della questione, quindi, sta l’aver parte con Gesù, ovvero l’essere incorporati a lui. Sia che si tratti di un esempio di umiltà sia che si tratti di un segno che richiama l’immersione battesimale nella sua morte e nella sua risurrezione, quel segno stabilisce una koinonia tra il maestro ed il discepolo. Questa koinonia, però, non è tutto, ma rimane un punto sorgivo per la koinonia tra i fratelli. Infatti, Gesù dà ordine ai discepoli di fare gli uni gli altri quello che Lui, il Maestro e Signore, ha fatto: lavarsi i piedi per avere parte gli uni degli altri.
In questo modo, il credente in Gesù è reso apertamente consapevole che per essere davvero credente deve interpretare se stesso come una persona in simultanea relazione comunionale con il Signore e con i fratelli.
Alla luce di questi dati, cari fratelli e sorelle, non possiamo che affermare che la Chiesa – per essere la comunità dei credenti come Gesù l’ha voluta – deve interpretare se stessa come il luogo in cui la comunione nasce, si sviluppa, si intensifica e si allarga. Deve nascere e sviluppare la koinonia con il Signore Gesù: una Chiesa che non educhi i battezzati a fare di Gesù il centro vero e concreto della loro esistenza, che non educhi i battezzati a fare della loro vita un riflesso della vita stessa di Gesù, è evidentemente una Chiesa che ha tradito la sua missione. Ne consegue però – e questo riguarda tutti noi, singolarmente presi – che anche la vita di un credente che non si pone come obiettivo quello di fare di Gesù il centro vero e concreto della propria esistenza, è una vita che ha fallito la propria vocazione e tradito la propria missione. Gesù in nessun modo può essere una presenza passeggera o una presenza a cui rivolgersi quando si ha voglia o quando si abbia bisogno. O Gesù è il centro vero della nostra esistenza o dobbiamo desistere dal definirci credenti.
Inoltre, una Chiesa che non spinga i suoi membri a vivere in piena comunione ed a condividere i propri beni spirituali e materiali, anch’essa tradisce la sua natura. O la Chiesa di Cristo allarga gli spazi della comunione con tutti o semplicemente non è più la Chiesa di Cristo. Sta nel DNA del credente la necessità intrinseca di andare verso l’altro, di accogliere nel proprio cuore, nella propria vita, nelle proprie strutture le altre persone. Non esiste motivazione alcuna per la quale chi porta il Nome di Gesù possa sentirsi autorizzato a chiudere gli spazi ampi della koinonia con i fratelli o con chiunque.
Cari fratelli e sorelle, care amiche ed amici, la forza rivoluzionaria del giovedì santo sta proprio qui: in un mondo sempre più privatizzato, nel quale le relazioni sono diventate funzionali a qualcosa, nel quale si ritiene che la persona debba affermarsi su tutto, sopra tutti e contro ogni cosa, questo giorno invece ci ricorda che siamo fatti per la comunione, per la condivisione. La Chiesa – koinonia con il Signore e con i fratelli, koinonia di pane, di vita, di sentimenti, di esperienze, di doni, di grazia – è alla fine, se però rimane come Gesù l’ha voluta, il migliore antidoto alla devastazione di questo mondo causata dall’individualismo.
Imploriamo dal Signore la grazia di riconoscere che sono nella vera e positiva relazione con gli altri e di tutti con il Signore Gesù, ritroviamo la strada della vera umanità. Amen.
dom Tonino +
Dopo la Celebrazione si è tenuta una veglia di preghiera con Gesù nel Getsemani.

Qui sotto il video della preghiera.












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