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I settimana d'Avvento 2020: Il Regno di Dio avviene per te!

  • Christiana Fraternitas
  • 27 nov 2020
  • Tempo di lettura: 11 min

Aggiornamento: 5 dic 2020

"Una globalizzazione del mercato senza una umana fraternità globalizzata è un mostro, un Leviatano che divora gli uomini e li annichilisce" alcune parole del sermone dell'Abate Antonio.


Venerdì 27 novembre 2020 alle ore 20, presso la Cappella della Casa d'Amministrazione, ha avuto inizio il Tempo d'Avvento proposto dalla Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola e il lucernario tratto dalle Constitutiones Apostolorum. Durante la Preghiera le monache e i monaci hanno indossato la mascherina arcobaleno per sensibilizzare alla pace e all'inclusione sociale.

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Omelia del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella

in occasione della I settimana d'Avvento 2020


Testo di riferimento Mc 13,33-37


1. Comunità di Gesù: una Chiesa in avvento! Fede, amore e speranza per liberarsi dalla percezione ciclica del tempo e vivere l’esperienza di un’esistenza in avvento.


Cari fratelli e sorelle, carissimi amici ed amiche,

proviamo a vivere da questa sera un nuovo inizio! Il tempo di avvento è come l’inizio di un rinnovato cammino che la bontà premurosa di Dio mette a nostra disposizione. Ogni nuovo inizio, però, porta sempre con sé un rischio: quello, cioè, di vivere il tempo come un cerchio costante che si muove per tornare al punto di partenza e così si rimane prigionieri del tempo.


Questo accadrebbe, se vivessimo l’avvento come una tappa di un tempo sacro da riempire di atti religiosi o tradizionali, ripetitivi e senza senso, anziché come un’opportunità, un’occasione di Grazia per accogliere Gesù, camminare con lui e dietro di lui e così fare della nostra stessa vita un evento di grazia e di salvezza. Questo avvento o servirà a riscoprire che la nostra stessa vita è un kairòs (un tempo e avvenimento di grazia) o sarà un altro tempo sprecato, vissuto nella ripetitività degli atti e degli appuntamenti, senza che nulla cambi veramente. Vivere il tempo come qualcosa di ciclico e ripetitivo è un rischio sempre costante, di cui anche la Bibbia conosce il fascino ed il rischio. Il libro del Qoèlet ne è un valido esempio: «vanità delle vanità, tutto è vanità. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Guarda, questa è una novità”»? (1,2.6.10). Fratelli e sorelle, la tentazione di vivere la vita come un costante ritorno di atti ripetitivi ci fa perdere la gioia delle novità, il brivido degli inizi, l’esultanza che nasce dalla bellezza delle cose di tutti i giorni. Se percepiamo che il tempo gira e rigira in egual modo ci sentiamo oppressi da un vortice che ci appiattisce e ci svuota, perché non c’è mai nulla di nuovo per cui valga la pena di gioire. Il tempo di avvento, invece, è una sfida a metterci in gioco per scoprire la novità di qualcosa che viene, che sopraggiunge, qualcosa che vale la pena di aspettare e preparare perché è una novità che dà senso e gioia nuovi al cammino ed a tutta la nostra vita.

Il tempo di avvento, attraverso l’ascolto della Parola, ci consente di accogliere Gesù nella fede, riconoscendo che egli è venuto nella carne ed ha instaurato con noi un rapporto vitale, una relazione forte e coinvolgente non con una verità dottrinale, dogmatica, bensì con una Persona: Lui, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, e noi! Se accogliamo nella fede che eventi di circa duemila anni fa sono fatti realmente accaduti e che questi fatti hanno impresso alla storia un nuovo dinamismo di vita e di amore, siamo capaci di testimoniare oggi, con l’amore concreto e fattivo, che quei fatti danno luce e senso alla vita nostra e di tutta l’umanità. E questo seme di nuova umanità, ovvero di un modo nuovo di comprendere l’uomo e la storia e di impostare la propria vita, ci dona la speranza di edificare il regno di Dio, ovvero un mondo nel quale nessuno è più ripiegato su stesso ma è aperto all’altro, al mondo, al creato, a Dio e può vivere in una perfetta e vivificante armonia.


È necessario dire, però, che quello che noi chiamiamo “tempo” di avvento, in realtà è uno stato permanente della vita della Chiesa. Sì, la Comunità di Gesù - sia chiaro - è una Chiesa in avvento! Non può essere altro! Noi celebriamo un tempo di avvento in determinate settimane dell’anno, non per archiviare questa esperienza quando essa è conclusa, ma per ricordarci il modo normale con cui vivere la fede, la dimensione di avvento della fede: la dimensione escatologica. Gli antichi autori cristiani parlavano delle tre venute di Cristo: la venuta di ieri nella sua carne umana, quella di oggi nella Parola, nella comunità, negli eventi della vita, e quella di domaninella pienezza del regno di Dio. Così la lettera agli Ebrei proclama con gioia: «Cristo è lo stesso! Ieri, oggi e sempre!» (13,8). Scoprire questa verità della nostra esperienza di fede ci riempie di una forza indicibile, perché ogni istante, nello scorrere del tempo, diventa un avvento, cioè una venuta, un irrompere di Dio e del suo amore nella nostra vita e nella nostra storia, rinnovandole e quindi liberandole dalla tentazione di vedere il tempo come un vuoto, asfissiante semplice scorrere dei minuti (krònos).


2. Fare attenzione e guardare, tenere gli occhi aperti, ben fissi verso l’orizzonte, ritti nell’attesa di una grandezza che ci comprende e ci supera, anelanti verso un bene che sta fuori di noi e che ci sopraggiunge.


In questo tempo di avvento, ci lasceremo guidare dai vangeli proposti dalla liturgia romana nel ciclo domenicale dell’anno B. Dopo aver scandito le tappe dell’anno scorso con le sette settimane ambrosiane, quest’anno invece seguiamo il corso romano. È la pluriforme e varietà della ricchezza delle Chiese di Cristo. I vangeli domenicali di questo tempo liturgico ci metteranno di fronte ad alcuni personaggi, spesso espliciti, altri impliciti, che tuttavia hanno un denominatore comune: scoprire il senso della vigilanza cristiana come custodia, come servizio ad una pienezza che non ci appartiene ma che ci viene donata. Ci accorgeremo di come la realtà, le persone, gli eventi, tutto ha una pienezza che noi non dobbiamo costruire, ma riconoscere. In fondo, questo è il senso ultimo dell’avvento: disporsi all’attesa, all’accoglienza di qualcosa che ci è dato, che sta in qualche modo in noi, ma anche che viene da fuori di noi e ci completa. Si tratta di abbandonare la pretesa dell’autosufficienza, la pretesa di dover costruire noi un mondo nel quale sentirci a casa, per fare invece l’esperienza liberante e gioiosa che quel mondo è già davanti a noi, dobbiamo solo accoglierlo e lasciarci accogliere. Ad-ventum: venire da, ovvero una pienezza che ci viene elargita. È un po’ - se ci pensate - come quando amiamo qualcuno: sentiamo che l’amore che proviamo verso quella persona lo abbiamo dentro di noi, ma non ci sentiamo pieni fino a quando non lo abbiamo ammesso e quella persona non ci fa dono del suo amore: sta in noi, ma la sua pienezza viene da un dono che sta fuori di noi.


Ed ora arriviamo all’Evangelo che abbiamo ascoltato. Il primo brano di questo cammino a tappe è la parabola del padrone che, partendo, affida la propria casa ai servi ed al portinaio. Gli esegeti dicono che questa parabola è finalizzata a preparare i discepoli alla sua passione. Ci troviamo nel cap. 13 di Marco: i servi sono la controfigura dei discepoli, a cui verrà chiesto di vegliare (come nell’orto del Getsemani), il padrone è la controfigura del Maestro che sta per partire ed affidare la sua casa ai servi, e la casa è l’immagine della comunità. Anche il riferimento al tempo del ritorno (sera, notte, mattino) viene interpretato come un’allusione alla sera della cena, alla notte dell’arresto e all’alba della sua consegna per essere ucciso.

Tuttavia, questo brano ci viene offerto all’inizio del tempo di avvento, perché al di là del contesto in cui è inserito, esso deve avere un significato che lo rende valido per sempre e per tutta la vita della Comunità di Gesù. Il tema centrale di questo brano è ovviamente la vigilanza ed è così determinante che in appena 5 versetti il tema torna ben 4 volte con l’uso di tre verbi differenti. Sembra che Marco, sul tema della vigilanza, abbia voluto usare tutto il vocabolario a sua disposizione.

Nel v. 33 abbiamo: fate attenzione, vigilate. Il primo verbo (blepo) significa guardare, avere gli occhi aperti. La vigilanza cristiana così ci viene presentata come la capacità di avere uno sguardo aperto sulla realtà, sul mondo che ci circonda.

Il secondo verbo (agrypneo) letteralmente significa cacciare via il sonno. La vigilanza cristiana è un restare desti, svegli, ma anche un risvegliarsi dal sonno. Le veglie notturne prima di un viaggio, prima del ritorno di una persona che aspettiamo con ansia, prima di un colloquio che può cambiarci la vita: sono veglie faticose ma foriere di una gioia immensa. Sono notti gravide di speranze.

Poi, per tre volte (ripeto, in soli 5 versetti: vv. 34.35.37), Marco usa il perfetto gregoreo. Il verbo da cui deriva è egheiro, che è il verbo della risurrezione, di colui che sta in piedi, di colui che – destatosi dal sonno – sta ritto in piedi. Si tratta di una vigilanza attiva, operosa, che impegna ogni attività e facoltà.

Questo tipo di vigilanza ci ricorda quello della sentinella, che, ritta sulla torre, tiene gli occhi aperti, caccia via il sonno e scruta l’orizzonte, pronta a dare il segnale in caso di necessità. È una vigilanza anche pericolosa, perché la sentinella sa di essere l’avamposto di difesa, il primo ostacolo da abbattere, per evitare che venga dato l’allarme, eppure sta lì al suo posto, pronta a difendere la città.


E forse è proprio qui che troviamo il senso ultimo di questa parabola del Signore. I servi, il portinaio e la sentinella difendono, custodiscono non solo se stessi, ma prima qualcosa d’altri, pronti anche a dare la vita per questa difesa. Sembra che Gesù voglia invitarci ad una custodia di un bene che sta fuori di noi, ma che diventa il senso del nostro vigilare. Quella casa, che è anzitutto sua, è il suo abitare negli uomini, negli eventi della storia, nelle Chiese. Di tutto ciò noi siamo beneficiari, non possessori al massimo amministratori. La vigilanza richiede una profonda umiltà di cuore, perché chiede di riconoscere che esiste un bene, che può valere più di noi, che ci sopravvive, che ci ingloba ma ci supera. Riflettiamo, forse per questo noi usiamo l’espressione “custodire il creato”: noi siamo creato, ma il creato in sé è un bene più grande, che ci ingloba ma ci supera.


3. Conoscersi in una “beatifica contingenza” per superare la globalizzazione del mercato in favore di una umana fratellanza globalizzata.


Pensiamo al momento storico concreto che stiamo vivendo: tutti attendiamo il vaccino contro il CoVid-19. È un’attesa vigilante (e per alcuni aspetti esasperante), ma è forse un’attesa incompleta: stiamo aspettando qualcosa che ci faccia tornare a “come eravamo prima”. E questo sarebbe davvero sbagliato; avremmo perso circa due anni di vita inutilmente. Questo tempo, infatti, ci ha mostrato, privandoci, che esistono beni più grandi di noi, che ci inglobano ma anche ci superano ai quali, contrariamente a quanto abbiamo inteso prima, dobbiamo tendere: le relazioni con le persone amate, i più deboli e quindi più bisognosi di cure e attenzioni (come i piccoli e gli anziani), la modalità della tenuta sociale ed economica dei nostri paesi. Questo tempo di privazione e di attesa ci ha mostrato che siamo più connessi e legati di quanto vorremmo ammettere: prendersi cura dei più deboli, vuol dire prenderci cura del nostro passato, delle nostre radici, ma anche del nostro futuro e delle nostre speranze. Io non sono anziano e non sono bambino, ma se mi prendo cura di loro, mi prendo cura del mio passato e del mio futuro. Io non sono il sistema economico del mio paese, ma se mi prendo cura di esso, mi prendo cura delle relazioni economiche senza delle quali sono ridotto in povertà. Io non sono il creato, ma se mi prendo cura di esso, mi prendo cura dello spazio vitale in cui è inscritta la mia vita e la mia sopravvivenza.


In questo modo la vigilanza cristiana, a cui ci invita questa prima settimana di avvento, è il riconoscere che esistono beni, fuori di me, senza dei quali però io semplicemente non sono nulla e che non è vero che siamo felici nella misura in cui ci rendiamo indipendenti e autosufficienti, ma è esattamente vero il contrario e cioè che siamo felici nella misura in cui ci riscopriamo connessi, interdipendenti, bisognosi gli uni degli altri ed impariamo a prenderci cura di quanto sta fuori di noi, ma viene a noi (adventum) come un dono da accogliere e custodire.

Riconoscersi bisognosi! Quanta paura ci fa questa parola! Se, in questo momento, uno si avvicinasse a noi e ci dicesse: tu sei un bisognoso!, noi lo guarderemmo male e magari gli risponderemmo: come ti permetti? Che ne sai tu di me?

Che ne sai tu di me? Forse proprio questa è la domanda vera: neppure noi sappiamo, o meglio, neppure noi vogliamo ammettere che siamo bisognosi, bisognosi di amore, bisognosi di riconoscimento, bisognosi di una mano che ci sostenga nel cammino e non ci faccia sentire soli.


L’avvento è l’occasione di grazia per compiere questa rivoluzione antropologica e culturale: non solo non c’è nulla di male ad avere bisogno, ma anzi, al contrario, solo quando avremo il coraggio liberante di riconoscerci e dirci bisognosi, solo allora saremo veramente noi stessi. Porto nella memoria la conferenza di un grande professore di metafisica e ontologia, durante i miei studi alla Gregoriana. Egli diceva che: “tra gli enti, cioè tra tutte le cose che sono, c’è una beatifica contingenza. Ogni cosa sa di essere nell’esperienza del tatto con le altre cose, che la delimitano e la limitano, ma anche le danno l’ebbrezza dell’essere e del sapere di essere; e per questo la contingenza è beatifica”. Il mondo nel quale viviamo talvolta sembra essere una piazza affollata in cui ognuno si affanna a gridare solo il proprio “io”, mentre può diventare un’ecumene (casa comune, casa di tutti) se impariamo a gridare “l’io” e il “tu” assieme, ovvero il “noi”!

Sì, siamo bisognosi: abbiamo bisogno di Dio, abbiamo bisogno dei fratelli, abbiamo bisogno dell’aria, abbiamo bisogno dell’acqua e così via... E sono questi bisogni che ci fanno vivere la gioia di essere parte di un tutto armonioso, senza del quale non saremmo nulla.


Guardate cosa è accaduto nella smania di costruire un mondo globalizzato solo dal punto di vista dell’economia: i mercati dettano legge, gli indici di borsa sono diventati più importanti della vita delle persone. Avendo scommesso tutto sul capitale economico, anziché sul capitale umano, si è amplificato un mondo di disuguaglianze. In Italia la pandemia ci ha mostrato come dipendiamo gli uni dagli altri, anche se ancora non vogliamo comprenderlo. La tecnicizzazione esasperata del mondo del lavoro ha creato una disoccupazione spaventosa. I giovani dipendono dagli anziani per il loro mantenimento. Poiché proprio gli anziani sono stati la fascia sociale più colpita e molti sono morti, ora ci troviamo con sacche di persone e famiglie che hanno perduto l’origine del loro sostentamento e l’economia ha perso un “potere d’acquisto”. E tutto è derivato da una interpretazione del mondo del lavoro: fare a meno del capitale umano per ottimizzare i tempi di lavoro ed i guadagni o meglio degli “straguadagni”. Così accade quando il lavoro non è più espressione e fonte di dignità della persona nella società, ma unicamente strumento di “straguadagno” e ricchezza a discapito di molti. Al guadagno si può sottomettere tutto, anche la dignità e la vita delle persone. Il mondo così si trasforma in una giungla meccanica, automatica, dove le persone non valgono per ciò che sono, ma per ciò che producono.

Una globalizzazione del mercato senza una umana fraternità globalizzata è un mostro, un Leviatano che divora gli uomini e li annichilisce.


Parafrasando Dostoevskij potremmo dire che solo l’avvento può salvarci! Sì, solo la capacità di riconoscere che non possiamo fare a meno del mondo e delle persone che ci circondano può essere la strada di salvezza dell’umanità. Il mistero dell’Incarnazione, di Dio che condivide la natura e la vita dell’uomo, ci mostra questa verità illuminante: la condivisione, nella fraternità globalizzata, ridona bellezza e vita al mondo intero.


Per questo vale la pena fare attenzione e guardare, tenere gli occhi aperti, ben fissi verso l’orizzonte, ritti nell’attesa di una grandezza che ci comprende e ci supera, anelanti verso un bene che sta fuori di noi e che ci sopraggiunge. Vale la pena, una volta tanto, uscire da noi, protenderci fuori di noi, non per arraffare, manipolare e monopolizzare, non per estendere il nostro dominio, ma semplicemente per accogliere un dono che ci viene dato e, al tempo stesso, lasciarci accogliere in un abbraccio disinteressato e pacificante! Buon cammino d’avvento. Amen.

dom Tonino +


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