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II domenica d'Avvento: "I pastori diventano dunque i primi evangelizzatori, i primi teologi della storia cristiana: non hanno studiato, ma il cuore è diventato contemplativo". Son parole dell'Abate.

  • Christiana Fraternitas
  • 7 dic
  • Tempo di lettura: 8 min

Il presepe sarà la traccia tematica della predicazione d'Avvento che si terrà alla Christiana Fraternitas. Il secondo tema affrontato riguarda: "I Pastori".

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Sabato 7 dicembre 2025, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica", si è svolta la seconda domenica d'Avvento alla Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita - come ormai da tradizione - dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum".



Testo integrale della I predicazione

del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella

"I Pastori"




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II Domenica di Avvento: «I Pastori»


Fratelli e sorelle carissimi, cari Amici,

in questo cammino d’Avvento stiamo lasciando che il presepe diventi per noi una sorta di Vangelo in miniatura, una piccola “Bibbia fatta immagine”. Ogni personaggio che contempliamo porta con sé una rivelazione, un tratto del mistero dell’Incarnazione. Oggi i nostri occhi si posano sui pastori, i primi testimoni del Natale nel racconto di Luca. Quel testo, tanto noto, merita sempre di essere ascoltato come se fosse la prima volta: «C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8). È significativo che Dio scelga proprio loro, uomini considerati impuri e marginali, per essere i primi destinatari dell’annuncio.

La tradizione rabbinica non ha parole tenere per la categoria dei pastori. Il Talmud (Sanhedrin 25b) li considera inaffidabili come testimoni in tribunale e li descrive come gente senza patria e senza radici. Eppure proprio a loro si manifesta l’angelo: questo è il paradosso evangelico. Origene, commentando il Vangelo di Luca, osserva che l’annuncio ai pastori anticipa il Vangelo ai pagani, perché Dio sceglie sempre ciò che il mondo disprezza per confondere ciò che appare sapiente. Come scriverà Paolo, «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1,27). I pastori sono l’icona di questo rovesciamento.

Ma in quella notte accade qualcosa di ancora più profondo. L’annuncio giunge “di notte”: non è un dettaglio estetico, ma un luogo teologico. Nelle Scritture la notte è l’ora della rivelazione e della prova. Nella notte Abramo riceve la promessa delle stelle (Gen 15); nella notte passa l’angelo liberatore della Pasqua (Es 12); nella notte Dio chiama Samuele (1Sam 3); nella notte Giuseppe, uomo giusto, ascolta la voce dell’angelo (Mt 1,20). Nella tradizione ebraica la notte è il tempo in cui la voce di Dio si fa più limpida perché tutto il resto tace. Un Midrash su Esodo afferma che «nella notte l’orecchio dell’uomo si apre, perché il cuore è meno occupato». I pastori sono allora l’immagine dell’umanità visitata da Dio nella sua oscurità. Non sono uomini perfetti, ma uomini svegli nell’anima, capaci di lasciarsi sconvolgere da una luce inattesa. Ambrogio dice: «Cristo nasce di notte perché il mondo intero era notte; e nasce per portare il giorno» (Expositio in Lucam, II).

A questo quadro evangelico la tradizione popolare, soprattutto quella del presepe napoletano, ha saputo aggiungere personaggi che non tradiscono il Vangelo, ma lo approfondiscono con l’intuizione simbolica.

Il primo è il pastore addormentato, il celebre Benino o Benito. Dorme mentre la storia della salvezza accade. Da un lato questo sonno ricorda quello dei discepoli nel Getsemani: «Li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti» (Mt 26,43). È l’immagine dell’uomo che rischia di perdersi il passaggio di Dio. Ma c’è di più. Nei racconti midrashici sul sogno, soprattutto nel Midrash Rabbah sulla Genesi, si dice che il sogno può essere il luogo in cui Dio inserisce “semi di rivelazione” anche quando l’uomo non capisce. Giuseppe, figlio di Giacobbe, riceve la propria missione nella trama di sogni non ancora chiari (Gen 37). Così anche Benino, il pastore addormentato, diventa un simbolo dell’uomo toccato da Dio prima ancora di potersi svegliare. Il presepe napoletano immagina persino che il presepe stesso sia il suo sogno: quasi a dire che la grazia precede la nostra vigilanza. È la logica della grazia preveniente cara ad Agostino: «Dio ci ama prima che noi lo cerchiamo» (Sermo 169). In questo senso il pastore addormentato non è solo la figura dell’indifferenza, ma anche quella dell’inizio di un risveglio: la grazia comincia dove l’uomo non ha ancora risposto.

Accanto a lui, un altro pastore porta sulle spalle una pecora viva. È un’immagine che rimanda immediatamente alla parabola del Buon Pastore: «Quando l’ha trovata, se la pone sulle spalle tutto contento» (Lc 15,5). È uno dei simboli più antichi dell’arte cristiana: nelle catacombe romane, molto prima che la croce diventasse il segno per eccellenza, Cristo è raffigurato come il giovane pastore che porta la pecora smarrita. I Padri hanno letto in questo gesto la sintesi del mistero dell’Incarnazione. Origene, in una delle sue omelie su Luca, afferma che Cristo porta la pecora “sulle spalle”, cioè sulla propria carne, caricandosi dell’umanità intera. Gregorio Nazianzeno dirà: «Lo prende su di sé per trasfigurarlo in sé» (Oratio 38). Nel presepe, questo pastore è allora un’icona cristologica: ci mostra che Dio non salva dall’alto ma portandoci, sostenendoci, caricandoci sulle proprie spalle. È anche un simbolo del ministero della Chiesa, chiamata a imitare il pastore che “porta” più che giudicare. Il Midrash sul pastore Davide racconta che quando un agnello era troppo stanco per camminare, Davide lo portava sulle spalle e così imparava la compassione. Non stupisce che la tradizione biblica abbia scelto proprio un pastore per diventare re (1Sam 16). Quel gesto di cura anticipa il cuore della missione di Cristo.

Accanto a lui troviamo il Pastore della Meraviglia, quello che apre le braccia e gli occhi nello stupore. È la figura dell’uomo toccato dall’irruzione del divino. Come Mosè davanti al roveto ardente (Es 3) o come Maria nell’Annunciazione, egli rappresenta l’atteggiamento essenziale della fede: lasciarsi sorprendere. I Padri, da Efrem il Siro a Gregorio di Nissa, hanno sempre detto che la vera teologia nasce dallo stupore, perché soltanto chi è ancora capace di meravigliare si accorge della presenza di Dio.

Poi c’è il Pastore Errante, quello che cammina nella notte con la lanterna o che invita altri a svegliarsi. È un personaggio molto antico e profondamente biblico. Ricorda la ricerca dell’amato nel Cantico dei Cantici (Ct 3), l’uscita di Abramo verso la terra promessa (Gen 12,1), e l’inquietudine dei profeti che vegliano come sentinelle (Is 21,11). È l’immagine della Chiesa che non si rassegna alle tenebre, che cammina, che cerca, che interroga. La sua lanterna è piccola, ma basta a fendere la notte: è la luce della fede, fragile ma reale.

Una figura tenerissima è Stefania, la pastorella, che porta al Bambino un neonato fasciato. Secondo la tradizione, offre ciò che non ha, un figlio immaginario, inventato. Ma proprio per questo il suo gesto è così profondamente vero. È come Anna, che presenta Samuele al Signore (1Sam 1–2), o come la sposa dei salmi che porta «i frutti delle sue mani» (Sal 128). Stefania ricorda che la fede è generativa: si presenta a Dio non per trattenere, ma per consegnare.

Vicino alla grotta spesso appare anche il cieco, guidato da un ragazzo. È il cieco nato del Vangelo (Gv 9), è Tobi condotto dal figlio Tobia, è il popolo che camminava nelle tenebre e ha visto la luce (Is 9,1). La sua presenza ci dice che la fede non è vedere con gli occhi, ma riconoscere con il cuore. I Padri amavano ripetere che «la vera vista è la fede»: questo pastore cieco vede più degli altri perché non pretende di vedere da solo.

C’è poi il pastore del fuoco, che custodisce una fiamma accesa nella notte. È simbolo dello Spirito, della colonna di fuoco dell’Esodo (Es 13,21), del cuore ardente dei discepoli di Emmaus (Lc 24,32), delle lingue di fuoco della Pentecoste (At 2,3). In quella piccola fiamma c’è la liturgia della notte, la vigilanza, la preghiera che sale come incenso: il fuoco è il segno della presenza di Dio che riscalda ciò che è freddo e illumina ciò che è oscuro.

C’è però un ultimo pastore, meno noto ma profondissimo: quello che porta sulle spalle una pecora morta. Nel presepe napoletano la pecora nera e senza vita rappresenta il demonio sconfitto. È un’immagine audace, quasi escatologica: un uomo che porta la morte vinta. Questa figura richiama la lotta spirituale di cui parla san Pietro: «Il vostro avversario, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8). Ma nel presepe la morte è già sulle spalle del pastore, cioè già sottomessa. È la realizzazione della profezia di Isaia: «Spezzerà il giogo che pesava sul popolo» (Is 9,3). E ricorda anche la promessa fatta nella Genesi: «Egli ti schiaccerà la testa» (Gen 3,15). Nel linguaggio simbolico, quel pastore è come un Giuseppe d’Egitto che porta sulle spalle il male trasformato in bene (Gen 50,20), o come l’agnello pasquale la cui morte segna la liberazione di Israele nella notte (Es 12). È, in fondo, una prefigurazione della Croce: Cristo non solo porta la pecora viva della nostra umanità, ma porta anche la pecora morta del male sconfitto. Hans Urs von Balthasar amava dire che la mangiatoia e la croce sono fatte dello stesso legno: è la logica del Natale, che inaugura la vittoria sul male non con la forza, ma con la debolezza dell’amore.

 

Così i pastori, ognuno con la propria fisionomia, si avviano alla grotta. Luca dice che «andarono senza indugio» (Lc 2,16). È un’espressione che ricorda Abramo quando risponde alla chiamata: «Si alzò di buon mattino» (Gen 22,3). È lo slancio di chi riconosce nei segni una promessa.

Quando arrivano, «videro» e «raccontarono» (Lc 2,17). Il verbo greco orao (vedere) sarà quello che verrà usato per le manifestazioni del Risorto. È in qualche modo un mostrarsi rivelativo, da parte di Gesù, ed un vedere di accoglienza che prepara alla missione, alla testimonianza. Ed, infatti, «raccontarono» è reso dal verbo greco gnorizo, che significa far sapere. I pastori diventano dunque i primi evangelizzatori, i primi teologi della storia cristiana: non hanno studiato, ma il cuore è diventato contemplativo. Come dirà Agostino, «vedere Dio è già annunciarlo» (In Iohannis Evangelium 7).

Fratelli e sorelle, questi pastori hanno una duplice funzione di rappresentazione. Da un lato, rappresentano la variegata umanità dinanzi al mistero di Gesù, ma dall’altro lato ricordano anche qualcosa di Gesù. Essi rappresentano l’umanità nella sua varietà: addormentata, errante, stupita, ferita, generosa, cieca, illuminata, tentata, risvegliata. Sono come capitoli diversi di una stessa storia che convergono verso la grotta. E nella grotta tutto trova compimento: il dormiente si sveglia, l’errante trova la via, il cieco vede la luce, la pastorella offre la vita, il fuoco diventa calore, l’agnello annuncia la Pasqua, il peccato viene sconfitto.

Perché al centro non ci sono loro, ma Lui, Gesù: il Pastore vero, il Pastore bello, quello che non porta una pecora, ma porta noi; quello che non si stupisce dell’uomo, ma lo ama fino alla fine; quello che non ci sveglia con un ordine, ma con una carezza; quello che ci cerca nella notte e ci trova nella nostra fragilità.

È a noi, come a quei pastori, che l’angelo dice: «Oggi è nato per voi un Salvatore» (Lc 2,11). Non ieri, non domani: oggi. Che la luce che brillò nella notte del loro campo illumini anche le nostre notti, e che la loro corsa verso la grotta diventi anche la nostra.

Così potremo tornare, come loro, «glorificando e lodando Dio» (Lc 2,20), portando nel mondo la gioia di un Dio che si fa vicino, che si lascia vedere, che si lascia toccare, che si lascia portare come un bambino. Amen.



Qui sotto il video integrale della predicazione


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