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III domenica d'Avvento: "Nel presepe, dunque, Maria e Giuseppe diventano l’icona dell’umanità che accoglie Dio senza comprenderlo fino in fondo" dice l'abate Antonio nell'omelia.

  • Christiana Fraternitas
  • 55 minuti fa
  • Tempo di lettura: 6 min

Il presepe sarà la traccia tematica della predicazione d'Avvento che si terrà alla Christiana Fraternitas. Il secondo tema affrontato riguarda: "Maria e Giuseppe".

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Sabato 13 dicembre 2025, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica", si è svolta la seconda domenica d'Avvento alla Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita - come ormai da tradizione - dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum".



Testo integrale della I predicazione

del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella

"Maria e Giuseppe"




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III Domenica di Avvento: «Maria e Giuseppe»


Fratelli e sorelle carissimi, cari Amici,

nel presepe, quando lo sguardo si posa su Maria e Giuseppe, si entra nel cuore più profondo dell’Avvento: non semplicemente un’attesa cronologica, ma il movimento misterioso con cui Dio chiede ospitalità alla libertà umana. Maria e Giuseppe non sono personaggi decorativi; sono il luogo in cui la promessa si fa carne e la salvezza prende domicilio nella storia. Avvicinandosi a loro, si percepisce che ogni attesa davvero cristiana porta con sé tre elementi inseparabili: la chiamata, il turbamento e la fiducia. E la Scrittura ci guida dentro questa dinamica, permettendoci quasi di ascoltare i loro movimenti interiori.

Maria vive l’Annunciazione come una rivelazione che consola e spaesa insieme. Luca non teme di scrivere che, dinanzi alle parole dell’angelo, ella fu molto turbata (διεταράχθη ἐπὶ τῷ λόγῳ: Lc 1,29): un turbamento profondo, non solo emotivo ma esistenziale. Gregorio di Nissa coglie bene questo momento quando afferma che Maria «non rifiuta il mistero, ma non rinuncia a chiedere come esso possa compiersi» (Homilia in diem natalem Christi, PG 46, 1133). È l’immagine di una fede che non spegne la ragione ma la trasfigura. E mentre l’angelo la rassicura — «lo Spirito santo scenderà su di te» (Lc 1,35) — Maria si consegna totalmente, nel suo «ecco la serva del Signore» (Lc 1,38), un sì che Agostino commenterà dicendo: «Per la fede concepì nel cuore prima che nel grembo» (Sermo 215,3).

Nelle ore che precedono la nascita, quel sì si rinnova dentro l’incertezza del viaggio, la povertà dell’alloggio, la percezione che il Figlio promesso non nasce in un palazzo ma tra gli odori pungenti di una stalla. È significativo che nella tradizione iconografica orientale Maria sia rappresentata spesso distesa, quasi affaticata, lo sguardo rivolto altrove, mentre il Bambino brilla al centro della scena. In molte icone bizantine — come quella celebre di Teofane il Greco — Maria appare in un atteggiamento che non è di trionfo ma di contemplazione interrogante: è Madre, ma prima ancora è credente che cerca di comprendere il mistero che sta stringendo il mondo intero, non solo le sue braccia. E non è un caso che Luca descriva la sua interiorità con un verbo intenso: «teneva insieme queste cose meditandole nel suo cuore» (συμβάλλουσα ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτῆς: Lc 2,19). Metteva insieme, confrontava, cercava il filo di Dio negli eventi. Origene commenta questo versetto dicendo che Maria «divenne il modello di chi medita la Parola: la porta in sé, la domanda, la custodisce» (Homiliae in Lucam, 12, PG 13, 1849).

E quando trasferiamo questo sguardo sul presepe, scopriamo che la tradizione presepiale ha saputo tradurre in forme e colori tutto questo patrimonio spirituale. Le statue di Maria, nelle scuole napoletane e in molte rappresentazioni popolari italiane, non sono mai rigide: hanno veli morbidi, spesso azzurri o bianchi, che simboleggiano purezza e cielo, e la postura più frequente — soprattutto dal Seicento in poi — è quella inginocchiata o leggermente piegata verso il Bambino, in un gesto che è insieme di adorazione e di stupore. Non è raro trovare, nei grandi presepi barocchi, una Maria giovanissima, con lineamenti delicatissimi modellati in terracotta policroma, come nel celebre Presepe Cuciniello del Museo di San Martino a Napoli, dove il volto della Vergine sembra oscillare tra la tenerezza e la domanda interiore. Altre scuole, soprattutto nell’Italia centrale e nel mondo alpino, raffigurano una Maria più adulta, talvolta con tratti più marcati, quasi a sottolineare la maturità spirituale richiesta dal mistero.

Accanto a lei, Giuseppe vive un’esperienza altrettanto profonda, benché silenziosa. Matteo lo chiama «uomo giusto» (Mt 1,19): non solo un osservante della Legge, ma uno che possiede un cuore capace di discernimento. Giovanni Crisostomo nota che Giuseppe «non volle né accusare né abbandonare: cercava la via della misericordia nella fedeltà» (In Matthaeum homiliae, 4,3). Quando l’angelo appare nei sogni, il verbo usato — epháne (ἐφάνη: Mt 1,20) — suggerisce un’irruzione luminosa nella notte della coscienza. E Giuseppe, svegliandosi, «fece come gli era stato ordinato» (Mt 1,24): non parla, agisce. La sua fede è obbedienza operosa, fatta di scelte che cambiano la storia senza clamore.

L’arte presepiale traduce magnificamente questo tratto. Nei presepi napoletani del Settecento Giuseppe è rappresentato con una postura spesso leggermente arretrata rispetto a Maria: un passo indietro non per distanza affettiva, ma per riverenza. Indossa tuniche ocra o brune, colori della terra, che richiamano il suo ruolo di lavoratore e di custode. In alcune opere porta una lanterna, simbolo dell’uomo che veglia nella notte; in altre un bastone, che segna il cammino del giusto. Il suo volto è spesso inclinato, come se stesse ancora ascoltando la voce dell’angelo che gli ha parlato nel sogno. Le mani, grandi e nodose nei presepi più realistici, mostrano la fatica del quotidiano: Giuseppe è l’uomo che serve Dio con il lavoro delle sue mani. Nei presepi più antichi, come quello attribuito ad Arnolfo di Cambio a Santa Maria Maggiore (1289), Giuseppe è anziano, barbuto, avvolto in un mantello pesante: figura meditativa, quasi monastica, che vigila sul mistero. Nel presepe catalano e in quello provenzale, invece, è spesso più giovane, in atteggiamenti più affettivi: un segno di come le culture abbiano letto in modo diverso la figura del padre putativo.

Dentro la notte di Betlemme, Maria e Giuseppe vivono sentimenti che ogni credente conosce: la gioia del compimento e la fatica del non comprendere tutto. Lei avverte il mistero crescere dentro e accanto a sé; lui sente la responsabilità di proteggere ciò che gli è affidato ma che non gli appartiene. È un misto di timore e di stupore, come nella celebre Adorazione dei pastori di Correggio, dove la luce che illumina la scena nasce dal corpo del Bambino: un segno teologico e spirituale profondissimo. Non sono i due genitori a generare luce sulla vita del Figlio, ma è Lui a rischiarare la loro. Ed è questa luminosità interiore, che Caravaggio coglierà con violenza e poesia nella sua Natività con i santi Lorenzo e Francesco, che rivela cosa significhi davvero Avvento: lasciare che sia Cristo a definire il nostro sguardo.

E ancora una volta il presepe rende visibile questo mistero: il Bambino è spesso posto più in basso, come luce che nasce dall'umiltà, e Maria e Giuseppe lo circondano in un semicerchio che ricorda l’abbraccio della Trinità sul mondo. Le loro statue sono modellate perché il loro stesso corpo dica una teologia: Maria indica la fede che accoglie, Giuseppe la fede che custodisce, il Bambino la grazia che trasforma. Nei grandi presepi monumentali — come il Presepe del Chiostro di Santa Chiara a Napoli o quello ligure di Arturo Martini — la postura di Maria e Giuseppe diventa quasi architettura: sono pilastri silenziosi che sostengono lo spazio del divino.

Se proviamo ad ascoltare ciò che Maria e Giuseppe stavano vivendo in quelle ore, possiamo intuire che la loro gioia era intessuta di domande: Maria ricordava le parole dell’angelo, i segni, la gravidanza di Elisabetta, ma ora tutto si concentrava in un bambino che piangeva, bisognoso di essere scaldato; Giuseppe si chiedeva come avrebbe protetto la sua fragile famiglia, mentre percepiva che ogni passo era guidato da una volontà più grande della sua. Ambedue vivevano la notte come luogo teologico: non come spazio della paura, ma dell’abbandono fiduciale. La tradizione patristica ama definire questa notte come felix obscuritas, felice oscurità, perché — scrive Ambrogio — «Cristo nasce nell’oscurità per illuminare la nostra notte interiore» (Explanatio evangelii secundum Lucam, II,41).

Nel presepe, dunque, Maria e Giuseppe diventano l’icona dell’umanità che accoglie Dio senza comprenderlo fino in fondo, che dice sì senza vedere il domani, che crede mentre ancora trema. L’Avvento ci conduce dentro questa stessa dinamica: fidarsi mentre Dio cambia i nostri piani, adorare mentre il mistero ancora ci supera, consegnarsi a una luce che nasce lentamente, spesso nelle nostre stalle interiori. E forse la santità di Maria e Giuseppe sta tutta qui: nel non pretendere di possedere Dio, ma nel lasciarsi possedere da Lui; nel non sforzarsi di capire ogni cosa, ma nel custodire ciò che accade in un dialogo silenzioso con il cielo; nel non avere risposte, ma lasciarsi guidare da una parola che promette futuro.

Chi contempla Maria e Giuseppe nel presepe comprende che l’Incarnazione non è un fatto passato: è la forma con cui Dio continua a entrare oggi nella nostra vita, chiedendo di essere accolto con la stessa trepidazione, la stessa delicatezza, la stessa umile grandezza che essi hanno vissuto. In loro, nella loro notte, nella loro gioia ancora inquieta, l’Avvento raggiunge il suo culmine: Dio viene, e l’uomo impara che non c’è gioia più grande di lasciarlo venire.



Qui sotto il video integrale della predicazione


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