IV domenica d'Avvento: "In questo senso la spiritualità cristiana ha sempre letto gli angeli del Natale come un appello rivolto al credente a diventare, a propria volta annuncio" l'Abate nell'omelia.
- Christiana Fraternitas
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Il presepe sarà la traccia tematica della predicazione d'Avvento che si terrà alla Christiana Fraternitas. Il secondo tema affrontato riguarda: "Gli Angeli".

Sabato 20 dicembre 2025, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica", si è svolta la seconda domenica d'Avvento alla Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita - come ormai da tradizione - dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum".
Testo integrale della I predicazione
del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
"Gli Angeli"

IV Domenica di Avvento: «Gli Angeli»
Carissimi fratelli e sorelle, cari amici,
In questo tempo di Avvento stiamo idealmente costruendo il nostro presepe ed è come se stessimo preparando la culla nella quale far nascere il Bimbo Gesù nella Notte Santa del Natale. E questa IV domenica di Avvento tocca proprio agli angeli, che tra i personaggi del presepe sembrano i più facili da collocare, quasi venissero da sé, sospesi tra cielo e terra, pronti a essere appoggiati sopra la grotta.
Dobbiamo onestamente riconoscere che nei nostri presepi gli angeli appaiono spesso come figure leggere, quasi decorative, mentre la Scrittura li colloca sempre nei momenti in cui la storia umana viene toccata in profondità dall’iniziativa di Dio, come se il cielo non potesse restare spettatore silenzioso quando l’Eterno entra nel tempo.
Per collocare gli angeli nel nostro presepe, vale la pena ricordare brevemente quale posto essi occupano nell’intera rivelazione biblica, perché la Bibbia non li presenta mai come figure marginali o accessorie, ma come segni eloquenti del modo con cui Dio entra in relazione con l’uomo. Dalla Genesi all’Apocalisse gli angeli accompagnano, custodiscono, ammoniscono, interpretano e lodano: sono presenti nel sogno di Giacobbe, quando la scala che unisce cielo e terra è attraversata da angeli in movimento (Gen 28,12), sono accanto ai profeti nei momenti di chiamata e di crisi, sostengono Elia nel deserto quando è tentato di lasciarsi morire (1Re 19,5-7), vegliano sul Figlio dell’uomo nel Getsemani secondo il racconto lucano (Lc 22,43) e infine, nell’Apocalisse, accompagnano la rivelazione del senso ultimo della storia.
Gli angeli, potremmo dire, sono il linguaggio con cui la Scrittura afferma che Dio non è distante, ma opera, parla, veglia e conduce, pur restando misteriosamente altro.
Vorrei riflettere con voi sulla comparsa degli angeli nelle prime pagine della Bibbia, perché – alla luce del Natale del Signore – la loro presenza assume un significato e nuovo e diverso da quello che essa ha nel testo veterotestamentario a sé stante.
Dopo la cacciata dal giardino, gli angeli appaiono come custodi della soglia, posti a oriente dell’Eden con la spada fiammeggiante (Gen 3,24), segno che il rapporto tra Dio e l’uomo è ferito ma non definitivamente spezzato, perché quella soglia resta presidiata, non cancellata. I Padri hanno spesso letto questa scena come un segno di misericordia paradossale: Gregorio di Nissa vede negli angeli non tanto dei carcerieri, quanto dei custodi di una promessa, perché l’Eden non è distrutto, ma attende di essere riaperto in un tempo che solo Dio conosce.
Questa funzione di custodia e di mediazione attraversa tutta la rivelazione biblica e trova nel Natale il suo compimento: gli angeli non difendono e impediscono più l’accesso a Dio, ma annunciano che Dio stesso ha varcato quella soglia ed è entrato nella carne. Se in Genesi la presenza angelica indicava un limite invalicabile per l’uomo, nel Nuovo Testamento la stessa presenza proclama che quel limite è stato superato da Dio. Se l’uomo non poteva osare di tornare nell’Eden, Dio stesso ha portato il vero Eden nel mondo, all’uomo. Non a caso molti Padri, da Efrem il Siro ad Agostino, leggeranno la mangiatoia come il nuovo giardino, il luogo in cui la vita rifiorisce.
Nel racconto lucano l’apparizione angelica ai pastori non è un semplice evento prodigioso, ma una vera teofania, una manifestazione di Dio: la «gloria del Signore» che avvolge i pastori richiama la kabod dell’Antico Testamento, la nube luminosa che segnava la presenza divina nel deserto e nel tempio, e ora quella gloria non abita più un luogo sacro separato, ma una notte di periferia, tra uomini ritenuti impuri e marginali. L’angelo interpreta questo evento con parole sobrie e densissime: «Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10), e qui l’esegeta non può non notare l’universalismo radicale dell’annuncio, perché ciò che accade in un angolo dell’impero romano riguarda l’intera umanità, e gli angeli, creature celesti, diventano paradossalmente i primi missionari di una salvezza destinata alla terra. Ambrogio, nel suo Commento al Vangelo di Luca, sottolinea che l’angelo non appare ai sapienti di Gerusalemme ma ai pastori, perché la fede semplice è più pronta ad accogliere il mistero di Dio (cf Expositio Evangelii secundum Lucam, II), e in questa scelta divina gli angeli rivelano qualcosa anche di sé stessi, perché essi non parlano per i potenti ma per chi veglia nella notte. Origene, nelle Omelie su Luca, insiste sul fatto che il canto degli angeli non è rivolto anzitutto a Dio ma agli uomini, quasi a educare l’umanità a quella lode che spesso dimentica, e interpreta il Gloria come una vera pedagogia spirituale, nella quale la pace annunciata non è assenza di conflitti ma riconciliazione dell’uomo con il disegno di Dio (cf Homiliae in Lucam, XIII).
Questa linea patristica è stata assunta e approfondita dalla grande teologia medievale: Dionigi l’Areopagita, nella Gerarchia celeste, descrive gli angeli come partecipi della luce divina nella misura in cui la trasmettono, non la trattengono, e questa intuizione ha inciso profondamente non solo sulla dottrina ma anche sull’arte cristiana, perché l’angelo diventa per definizione trasparenza, rimando, icona. Tommaso d’Aquino chiarisce che gli angeli, pur essendo superiori all’uomo per natura, sono in certo modo “inferiori” nel mistero dell’Incarnazione, perché essi servono ciò che non possono essere: Dio fatto uomo, e proprio per questo il Natale segna per loro una nuova forma di ministero, un servizio umile reso a un Bambino (cf Summa Theologiae, III, q. 1, a. 1 ad 2).
Anche la teologia moderna, da Karl Rahner a Hans Urs von Balthasar, ha visto negli angeli del Natale il segno che la rivelazione non è mai riducibile a un fatto puramente interiore o individuale, ma coinvolge il cosmo, il visibile e l’invisibile, in una grande sinfonia di senso.
L’arte ha saputo tradurre questa profondità teologica in immagini di straordinaria forza: nelle icone orientali della Natività gli angeli sono spesso disposti in alto, ma con il corpo inclinato verso la terra, in un atteggiamento di adorazione e di ascolto, come se anche loro stessero imparando qualcosa di nuovo guardando il Bambino. In alcune icone uno degli angeli annuncia ai pastori mentre altri adorano in silenzio, quasi a dire che la contemplazione precede sempre la missione. Nell’Occidente medievale e rinascimentale, dai mosaici di Santa Maria Maggiore fino alla Natività di Correggio, gli angeli diventano vortice di luce e di movimento, e in opere come quelle di Giotto o di Beato Angelico il loro canto sembra quasi percepibile, perché la pittura cerca di rendere visibile l’invisibile. Nei presepi napoletani del Settecento gli angeli sospesi sopra la grotta, circondati da nuvole e raggi dorati, portano cartigli con il Gloria e dominano la scena dall’alto, mentre la vita quotidiana scorre in basso, come a ricordare che il mistero di Dio entra nella storia senza annullarla, ma trasfigurandola. Nei presepi più poveri e domestici, invece, spesso basta un solo angelo, talvolta appena accennato, perché ciò che conta non è la quantità delle figure celesti ma il loro significato spirituale: l’angelo è il segno che il Natale non è solo un ricordo, ma un evento che continua a essere annunciato.
In questo senso la spiritualità cristiana ha sempre letto gli angeli del Natale come un appello rivolto al credente a diventare, a propria volta, annuncio. Gregorio Magno afferma che “angelo” non indica una natura ma una funzione, e che angelo è chi annuncia, non chi è annunciato, applicando questa definizione anche ai ministri della Chiesa e, in fondo, a ogni battezzato.
Nel tempo di Avvento contemplare gli angeli del presepe significa allora lasciarsi educare a una fede che ascolta prima di parlare, che riceve prima di agire, che accetta di essere attraversata da una parola più grande.
Gli angeli non comprendono il mistero dell’Incarnazione perché lo dominano, ma perché lo adorano; e questa adorazione silenziosa e cantata insieme è forse il loro insegnamento più profondo per noi.
Nella notte di Betlemme essi ci ricordano che Dio non ha disdegnato la nostra carne, che il cielo non ha avuto paura della terra, e che ogni volta che il Vangelo è annunciato con verità, anche oggi, il Gloria risuona di nuovo, magari senza luci visibili, ma con quella pace profonda che nasce dall’incontro tra la fedeltà di Dio e l’attesa dell’uomo. Amen.
Qui sotto il video integrale della predicazione
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